A Madrid, come avevo accennato, ho cercato di non battere esclusivamente i classici itinerari turistici, plaza de Toros, Gran Via, stadio Bernabeu e via dicendo, e sono partito a caccia di cose più defilate ma che potessero innescare in me qualche emozione nuova.
Sono in libreria che sfoglio un volumone fotografico su Madrid, e quasi per caso mi imbatto nella foto di un palazzo alla Blade Runner.
Prendo il libro con le due mani e guardo più da vicino la fotografia.
È in un nostalgico bianco e nero, e trasmette il fascino triste di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato.
Della misera fine che fanno, troppe volte, le utopie e i sogni dell'uomo, divorate e annerite dalla realtà.
È la Torres Blancas, dell'architetto Francisco Javier Sáenz de Oiza, che visse qui fino alla sua morte. Una sintesi perfetta di razionalismo e organicismo, e frutto del sostegno di un singolo mecenate, Juan Huarte.
Un'utopia di cemento realizzata dagli ingegneri Carlos Fernandez Casado e Javier Manterola, autori della struttura di enormi lastre a sbalzo portanti, che ha letteralmente spazzato via la vecchia concezione dei pilastri tradizionali.
Ventuno piani, adibiti a abitazioni e uffici, più due piani in copertura con le attrezzature collettive e una piscina a trifoglio.
È al 37 dell'Avenida de America: localizzo la fermata della metro più vicina e mi infilo nei sotterranei raffreddati dall'aria condizionata.
Fuori, ci saranno almeno trenta gradi.
Esco fuori dalla stazione della metro Cartagena e me la ritrovo ad occupare il cielo rovente del primo pomeriggio, silenziosa e solenne come una sequoia di pietra e vetro e ferro. Sotto, a pochi passi da dove mi trovo, scorre una specie di tangenziale, automobili che sfrecciano indifferenti e veloci e che spariscono lasciandosi dietro solo un eco di motore e gomme surriscaldate.
La fisso e la studio sentendomi come Will Smith in Io sono Leggenda, cercando di cogliere dietro le persiane di legno e le vetrate blu opacizzate un movimento, un qualsiasi segno di presenza umana.
Mi ci avvicino e nuovi dettagli di rassegnata fatiscenza si definiscono sotto i miei occhi.
A vederla da dove mi trovo io, potrebbe essere benissimo abbandonata da anni.
La trovo bellissima.
Oltre settanta metri di altezza su una zona di Madrid ignorata da qualsiasi guida turistica.
Ma come si può non notarla? Come possono non colpire il design dei suoi pilastri, i balconi curvi in cemento armato a vista, le persiane in legno, echi sia delle cose tarde di Wright che delle aggregazioni capsulari a grappolo di Isozaki e Kurokawa?
Eppure, qua fuori col naso per aria e la fotocamera in mano, ci sono solo io.
Attorno a me passano un paio di mamme che spingono il passeggino, e una coppia di impiegati è seduta su una panchina e parlano fitto, con un laptop aperto. Nessuno sembra accorgersi che conversano e si muovono all'ombra di qualcosa che è quasi alieno nel paesaggio.
Arrivo ad un'insegna in metallo grigio che ne proclama nome e creatore e data.
Si chiama Torri Bianche... ma io ne vedo solo una.
E non è neanche bianca.
Il cemento a vista è grigio, nudo e annerito.
Più tardi, collegandomi, scoprirò che il progetto originale consisteva in due torri.
Bianche.
Il bianco sarebbe stato prodotto aggiungendo polvere di marmo bianco al cemento... ma i soldi, a costruzione avanzata, finirono. E restò solo il cemento.
Di realizzare l'altra torre, neanche a parlarne.
Localizzo uno degli ingressi, scendo una rampa di scale, spingo un portoncino d'ottone e vetro.
Non pretendo di entrare in uno degli alloggi... ma mi accontenterei di fotografare uno degli impianti scala, sbirciare la tromba di uno degli ascensori circolari, aggirarmi per un atrio, cogliere un particolare interessante.
Mi preparo a sfoderare la migliore delle mie facce toste se qualcuno dovesse bloccarmi e chiedermi che cazzo ci faccio là, e percorro un bizzarro corridoio pavimentato di marmo lucido e dal soffitto a grappoli di grossi cilindri bianchi smussati. Mai vista una cosa simile in un edificio civile.
Ma la mia discesa in questo posto viene fermata dalla prima presenza umana che incontro: un portiere in camicia bianca a maniche corte e cravatta nera. Bello grosso.
"Quieres Algo? Encontrar a alguien?"
"Yo... uhm... estoy tomando algunas fotos", faccio, sollevando la Canon e facendogli un sorrisetto idiota.
"No se puede", scrolla la testa il custode di questo posto assurdo.
Annuisco. Torno indietro, esco di nuovo nell'aria surriscaldata e prima di allontanarmi, scatto altre immagini (quelle che vedete in questo post) di questo monolite semidimenticato... che è non solo di gran lunga uno degli edifici più interessanti in cui possiate imbattervi a Madrid, ma anche il parente tutto sommato fortunato di tante altre megastrutture che mai hanno visto la luce ma che tanto hanno influenzato quella meravigliosa utopia che è la transarchitettura.
D’altronde, tanto per citare Eraclito, chi non spera l’impossibile, non lo troverà.